SALA 9
La produzione degli impasti incisi trova nella cultura falisca del VII secolo a.C. un’ampia gamma di manifestazioni a livello locale.
A Narce, in particolare, si osservano creatività nella scelta delle forme e delle decorazioni come pure voglia di sperimentazione tecnica con vasi in impasto che si avvicinano alle produzioni in bucchero.
Tra le testimonianze più significative di questo impegno artigianale spiccano due grandi vasi biconici, opera di uno stesso artista: si tratta di vasi unici per la decorazione figurata che si allontana dagli schemi fissi adottati in altre produzioni e rivela piuttosto un intento narrativo; in particolare nel biconico con manico verticale il fregio in alto è decorato con una scena di caccia, dove la figura umana affronta esseri mostruosi, probabilmente leoni alati, mentre nel fregio inferiore sembrerebbe rappresentata una danza armata.
Nell’altro vaso è una serie di cavalli alati, unica rappresentazione del tipo a Narce.
L’artigiano ha adottato in maniera molto personale la tecnica dell’excisione, raramente attestata a Narce, che consiste nello scavare la superficie del vaso per realizzare la decorazione, arricchita abitualmente dal colore aggiunto rosso e bianco.
In questo caso il segno exciso è particolarmente sottile, poco adatto ad accogliere il colore ma è probabile che si tratti di un artificio voluto per creare un effetto coloristico nel contrasto tra la scabrosità della decorazione e la superficie lucida del resto del vaso.
Da sempre il rito ha rappresentato una parte fondamentale nella celebrazione delle cerimonie, sia nel culto dei morti sia in quello che regola il rapporto tra gli uomini e la divinità.
Spesso la presenza di santuari e di aree sacre nel territorio sono rese evidenti dalla scoperta di ex-voto. A Narce un importante santuario sulla sponda del fiume Treja ha restituito un complesso di offerte votive, solo in piccola parte esposte.
Gli oggetti, distribuiti in un arco di tempo molto ampio tra il V e il II secolo a.C., sono riferibili ad un culto legato a divinità femminili, di cui ignoriamo il nome. Certamente però vi erano venerate Demetra e la figlia Persefone.
Nella seconda metà del III secolo a.C., alle soglie della romanizzazione, sicuramente le dee titolari del santuario erano Minerva Maia e Fortuna, i cui nomi erano scritti su due altarini di tufo.
In ogni caso,in ogni momento della storia del santuario, il culto era indirizzato alla tutela della famiglia, nucleo portante della società, in tutte le fasi della sua formazione e crescita.
Attraverso il tempo si colgono le trasformazioni del culto anche nella tipologia delle offerte votive. Nelle fasi più antiche, del V e IV secolo a.C. i busti e le teste femminili sottolineano con i loro diademi e i monili (collane e orecchini) l’appartenenza ad un ceto urbano abbiente che offre alla divinità la propria immagine riccamente abbigliata per celebrare il passaggio all’età adulta con le nozze.
Nelle fasi più recenti il tema della protezione dell’infanzia prende il sopravvento; una particolare attenzione è indirizzata allo sviluppo della prole, della quale si colgono tutti i passaggi vitali: dalla nascita , con l’offerta di statue di infanti fasciati, a quella del progresso motorio nel secondo semestre di vita, con i bambini accovacciati, e infine alla fase del pieno possesso delle capacità di deambulazione con le statue di bambini stanti.
Uno degli aspetti più rilevanti di questo santuario è però quello della celebrazione del rito da parte dell’officiante in cerimonie che prevedevano l’uccisione di animali, la cottura delle carni, la distribuzione delle parti edibili tra i partecipanti al rito e infine l’offerta alla divinità di piccole porzioni del rimanente.
Eccezionale è la scoperta dello strumentario utilizzato dal sacerdote per queste cerimonie: una coppia di alari in ferro e le pinze da fuoco rinvenute nella posizione originale sopra un grande piatto vassoio, così come è esposto in vetrina.